1. Premessa ideologica

Fra i diversi fenomeni giuridici che il sistema delle fonti del diritto non riesce a qualificare secondo gli archetipi tradizionali[1]quello che si è scelto di esaminare è la “soft law”[2].
La caratteristica prima di questi “fenomeni giuridici” in espansione è la loro capacità di scardinare e rendere instabile il sistema delle fonti organizzato secondo il principio della gerarchia, cercandovi una collocazione in quanto “fonti del diritto”.
Ma proprio l’estrema ampiezza del termine introduce la c.d. “soft law” prodotta dalle Autorità indipendenti nazionali, sulla base del rilievo che, almeno quanto all’ordinamento italiano, i principali autori di atti riconducibili al concetto di “soft law” sono appunto le Authorities.
Autorità e “soft law” condividono fra l’altro almeno due caratteristiche: la eterogeneità, perché anche le prime sono difficilmente riconducibili ad unità e dunque si rivelano di difficile qualificazione, e l’atipicità, perché sono organismi che vedono la luce nel nostro ordinamento solo nei primi anni ’90 e si discostano dai canoni dell’amministrazione tradizionalmente intesa in quanto apparato servente del Governo. Esse si impongono, infatti, in quanto soggetti terzi e imparziali non solo rispetto agli interessi che si trovano a regolare, ma anche perché le competenze altamente specialistiche e l’indipendenza dei loro membri, normalmente non legati al circuito politico rappresentativo, consentono di far ritenere che il settore affidato dalla legge alla loro governance sarà guidato in modo assolutamente neutrale.
Nell’esteso panorama delle Autorità, vengono in rilievo, fra la altre, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e l’Autorità Nazionale Anticorruzione[3]che sono fra loro eterogenee: all’AGCM non sono assegnati formalmente poteri normativi, ma essa esercita funzioni paranormative (o se si preferisce maieutiche) attraverso un uso molto penetrante della propria moral suasion; all’ANAC sono invece assegnate formalmente funzioni normative, oltre che sanzionatorie.
La qualificazione della produzione regolatoria di dette Authoritiesnon è però pacifica, perché si basa su atti che possono definirsi prima facienormativi, pur non avendone le forme e le caratteristiche tradizionali, ma che, ciò nonostante, sono sostanzialmente vincolanti, perché considerati tali dai consociati che vi si adeguano.
La “soft law” è costituita, infatti, da un complesso di regole poste aldilà delle procedure formali ed i soggetti che contribuiscono alla sua formazione non sono istituzioni di governo; in altre parole, essa è posta in essere attraverso “nuove” formule di gestione dei processi decisionali (la c.d. “governance”).
Il fenomeno della “soft law” va dunque studiato nella prospettiva della teoria delle fonti e dell’interpretazione, indagandone però gli effetti giuridici in un sistema che non necessariamente deve considerarsi strutturato nel senso della gerarchia e della teoria dell’interpretazione, ponendo mente al fatto che essa assume il ruolo di indicatore nel sistema giuridico dei mutamenti della società.
D’altro canto, occorre considerare che la locuzione ricomprende in sé una molteplicità di atti, documenti (e spesso anche procedure), dotati di funzioni ed effetti diversi, sebbene non dotati di efficacia obbligatoria autonoma, incidenti in ambiti giuridici totalmente diversi fra loro, partendo dal diritto internazionale, passando per il diritto dell’Unione europea e arrivando infine negli ordinamenti dei singoli Stati.
La prima enucleazione del concetto viene fatta risalire agli anni ’60 del secolo scorso ed in particolare alla dottrina internazionalistica[4]che identificò la “soft law” come “the legally binding character of which has been deliberately and sometimes explicitly denied by their authors, but wich nevertheless cannot be considered as being merely morally or politically binding”. Queste particolari norme avrebbero dunque in comune una certa prossimità al diritto e una certa rilevanza legale, sebbene non abbiano forza vincolante di per sé stesse. Nonostante ciò, la “soft law” si caratterizza per essere in qualche modo assimilabile al diritto, in quanto capace di produrre effetti giuridici o, se si preferisce, lato sensunormativi[5].
Con ciò stesso, però, essa non può essere considerata stricto sensufonte del diritto, sebbene dotata di una speciale rilevanza legale che le deriverebbe dall’avere immediati effetti legali, dal suo ruolo fondamentale nel processo di sviluppo del diritto internazionale e dalla interrelazione esistente con il principio della rule of law, costituendo eventualmente la base di una disciplina pretergiuridica o metagiuridica.
La natura, per così dire “morbida”, di questo strumento, che ne determina la preferenza rispetto all’hard law, assolve anche alla necessità di un adeguamento veloce del mondo giuridico classico alla dinamica del continuo progredire delle conoscenze scientifiche e tecnologiche.
La dottrina comunitarista approfondisce le argomentazioni in tema di “soft law”, non foss’altro perché negli anni la Comunità e poi l’Unione europea hanno fatto largo e ampio uso di tali atti proprio in ossequio a quella idea che li vuole legati alla governance.
Il concetto di “soft law” comunitaria, in breve, potrebbe darsi facendo leva sui suoi due elementi fondamentali: non avere valore legalmente vincolante, ma effetti pratici. Il termine “law”, nella locuzione della quale si discute, è allora sinonimo non di diritto in senso stretto, ma più che
altro di rules of conduct, regole o norme di condotta di natura paranormativa che prescrivano o invitino i destinatari ad adottare certi comportamenti o certe misure.
Da ciò, si può comprendere come, a definire la “soft law” concorrano invero tre fondamentali elementi: l’essere essa rule of conduct; l’essere veicolata da strumenti non dotati di forza giuridica vincolante (no legally binding force), ma ciò nonostante non certo privi del tutto di effetti giuridici (legal effect). La natura di tali effetti dipende dal fatto che gli obblighi o i diritti veicolati dagli atti di “soft law” siano o meno accompagnati da un’obbligazione giuridica o da una sanzione. Se, invece, il conformarsi dei consociati agli atti di soft law è meramente volontario, allora è chiaro che essi producono effetti giuridici solode facto, mancando essi dunque di forza coattiva ed esplicando i loro effetti a livello pratico con intensità e gradi di normatività variabili, ancorché riconoscibili nella loro gradualità.
Non si può quindi escludere totalmente la “soft law” dalle fonti del diritto, sol che si guardi alla realtà dei fatti, che evidenzia come governi o forze politiche non trovino nelle tradizionali categorie giuridiche alcun impedimento all’adozione di atti e strumenti giuridici non usuali.
Per questo motivo, se politica e diritto non sono due elementi fra loro estranei, la prima deve essere considerata parte del processo di produzione del secondo. Conseguentemente, se il diritto è il prodotto di un procedimento che consegue a delle scelte e non un mero accadimento a cui gli individui sono soggetti, allora è necessario considerare le responsabilità che derivano da quelle stesse scelte ed in tal senso ogni studio giuridico sulle fonti non può che fondarsi su fenomeni reali, perché funzione dell’ordinamento è in ultima analisi “dare ordine” alla realtà e guidare i comportamenti dei consociati.
Esso, per vero, si compone non solo di regole stringenti, ma anche di “principi” diversi fra loro per alcune caratteristiche: i principi sono caratterizzati dall’esprimere valori supremi dell’ordinamento di una comunità; dal fondarsi sulla propria autorevolezza morale[6]; dal richiedere per la loro applicazione una ponderazione e un bilanciamento; dall’essere un riferimento necessario per l’attività interpretativa e dal poter condurre financo alla disapplicazione di regole incompatibili con essi.
La differenza fra principi e regole è dunque innanzitutto di tipo logico: le regole sono applicabili nella forma del “tutto o niente”, mentre i principi esprimono piuttosto una ragione che punta in una certa direzione, una “linea guida”. Inoltre, fra principi e regole esiste una differenziazione di tipo ponderale: i primi hanno la dimensione del peso o dell’importanza, che comporta che, in caso di conflitto fra due o più principi, debba essere operato un “bilanciamento”, considerando “il peso relativo” di ognuno di essi e facendo prevalere uno rispetto agli altri, senza però mai annullarli del tutto. Le regole, invece, non presentano quest’aspetto: nell’ordinamento considerato nella sua generalità non esistono regole più importanti di altre, perché quando due regole sono in contrasto una deve comunque prevalere sull’altra, secondo ben noti criteri ermeneutici: cronologico, gerarchico, di specialità, di competenza. Ed ancora: le Corti costituzionali fanno sovente applicazione della tecnica del balancing testin caso di conflitto fra principi, ritenuto uno dei capisaldi del riconoscimento implicito di un equilibrio che garantisce a quello risultante soccombente il minor sacrificio (the less restrictive means).
Si prospetta allora per il Giurista, non un semplice compito di descrizione di un fenomeno, bensì una ricostruzione dell’essere stesso del Diritto al di fuori delle sue mitologie neo-positivistiche: sicché, si può considerare detto fenomeno come una manifestazione affatto peculiare della dinamica giuridica che, tuttavia, si inserisce nel processo giuridico, integrandolo e perfezionandolo; un fenomeno, cioè, che, pur originato nell’atipicità, miraalla diffusione della consapevolezza, da parte degli interpreti, di comprendere l’ordinamento positivo declinato nella sua intima essenza, come un sistema dotato di un’autopoiesi legata al riconoscimento razionale della giuridicità del fattoe, pertanto, maggiormente adattabile alle dinamiche sociali.

Note